Come nascono i vetri murrini, la tecnica “millefiori”

Il termine “murrino” è stato coniato nel 1878 dall’abate Vincenzo Zanetti, che lo adottò per definire vasi e ciotole in vetro mosaico di epoca romana creati assemblando piccoli cilindri di vetro che presentavano al loro interno, e per tutta la lunghezza, disegni astratti o figurativi come ad esempio dei volti.

Già dal primo secolo aC, infatti, i Romani producevano dei vasi molto particolari, utilizzando un tipo di pietra dai colori vivaci e contrastanti, tagliata in tasselli assemblati a mosaico. Ben presto la pietra fu sostituita con il vetro. Proprio rifacendosi a questi vasi, nel XIX sec. l’abate Vincenzo Zanetti riportò definitivamente alla luce questa tecnica dimenticata da un millennio e mezzo.

Alla base delle opere vetrarie a murrina ci sono appunto le “murrine”: piccoli elementi cilindrici dal caratteristico disegno a fiorellino, posti l’uno vicino all’altro. Le murrine si ottengono tagliando le canne in sezioni di alcuni millimetri.

Le canne si realizzano con la sovrapposizione di diversi strati di vetro colorato: un operatore preleva, usando un’asta di ferro, una data quantità di vetro fuso da un forno, poi, immergendolo in un crogiolo contenente vetro di colore diverso, crea un secondo strato, e così via. Ad un certo punto della lavorazione la massa di vetro fuso viene infilata in uno stampo con delle costolature verticali a forma di fiore, di stella, o di cuore e in questa maniera si otterrà una murrina con disegno floreale, a stella o a cuore.

La massa di vetro che si ottiene, che ha all’interno il disegno, viene assottigliata per stiratura formando una lunga canna che viene lasciata raffreddare. Una volta raffreddata la canna viene tagliata in dei piccoli segmenti che prendono il nome di “murrine” le quali, vengono disposte fittamente una vicino all’altra per creare la composizione. Durante la fusione gli spazi tra una murrina e l’altra si chiudono dando luogo ad una lastra di vetro compatta a cui si da la forma dell’oggetto desiderato.